giovedì 20 giugno 2013

Sara Tommasi morta

Sara Tommasi, l’etera passeggiatrice mondana, l’austera irremovibile peripatetica, si, proprio lei, la lucciola cortigiana e mantenuta, non è più. Ogni buon uomo è a conoscenza della sua codarda e devota ritirata al cristianesimo, della sua rispettosa e riverente evangelizzazione di qualche mese fa. Ebbene si, è notizia di queste ultime ore che essa, lei, la brava Sara Tommasi, durante la sua incessante e inesauribile orazione. Mentre invocava supplichevolmente la madre del Cristo - che tanto le somiglia - proprio mentre la implorava, delirando ed inveendo, cantando a piena voce le lodi al cielo, di discostarla il più possibile dai corrotti, depravati e malati di poca fede. Ella, latrando ed ululando addosso all’effigie di padre marrano, vituperando gli scarsi e gl’impuri, i viziosi e i peccaminosi. Proprio in quegl’ istanti incommensurabili, data l’estesissima e sconfinata devozione e carità nei confronti della donna mesta, della beata vergine, si fece riverginare. Decise quindi e si recise la vulva. La recintò, se la sbarrò, se la cucì e se la trapuntò, se la rabberciò alla bene e meglio e se la saturò. Ignorando però le conseguenze. Impossibilitata ad orinare si gonfiò, accrebbe a dismisura e deflagrò. Oltre a lei, perse la vita anche un pretino gaio che, pare, le aveva consigliato il mendace espediente per meritarsi l’empireo ed eliso Eden beato.

venerdì 24 maggio 2013

La campana

Percepivo l’odioso suono della campana, ma non ne captavo la provenienza. Cercai, come un cane annusa il tartufo, di aguzzare l’orecchio, di riconoscerne la fonte, d’intuirne, se mi fosse stato possibile, l’origine. Dunque perlustrai ogni contrada, ispezionai ogni città, esaminai, con l’abilità di un segugio, ogni via, ogni sentiero. Analizzai tutti i cantoni, visitai fino all’ultimo luogo remoto del globo, ma, con mio grande dolore, non conseguii ciò che cercavo. Quella nefasta campana continuava a suonare. Senza più speranze alzai gli occhi al cielo, scandagliando per l’ultima volta, sforzandomi di ripescare, con un chimerico miraggio, la genesi del mio tormento. E mi parve di trovare qualcosa, si, la vidi, vidi finalmente quella deprecabile campana!!! Urlai il più forte possibile verso di essa, ma con una tale intensità che la prestanza della mia voce produsse un’energia, un vigore, una gagliarda e virile folata di vento miscelato ad una micidiale scarica elettrica mai veduta prima d’ora. Tanto fu immenso il mio sforzo che la campana saltò via dal campanile e con essa anche il prete che la stava suonando. Volarono e volano ancora nel cosmo più occulto e recondito.

lunedì 24 settembre 2012

Il Coltellaccio


Avevo un coltellaccio rugginoso e me lo roteavo tra le dita facendolo turbinare ad una velocità eccezionale mentre repentinamente lanciavo occhiate all’antica figurazione impressa sulla centenaria porta del convento. Il cinguettio dei fringuelli mi distrasse, ahimè, e voltatomi verso quel suono mi scivolò via il coltellaccio dalle mani e lo persi di vista, cominciai così una penosa ricerca spiacevole che durò parecchie ore. Perlustrai l’ampia latrina del convento in ogni angolo, ma non lo trovai. Esplorai il vetusto gabinetto del frate anziano, roteai persino il nauseabondo sterco che galleggiava sull’acqua, ma non lo trovai. Frugai nella toilette e nel bagno turco privato dei francescani, scandagliandolo da capo a piedi, ma non lo trovai. Setacciai i numerosi vespasiani che si ergevano in ogni cantone, investigando i bidet, gli acquai, i lavelli e i lavabi, ma non lo trovai. Rovistai i restanti locali, ma tra i numerosi cessi, le trecento stanze da bagno, i centocinquanta servizi e i millecinquecento W.C. non riesumai il mio fedele alleato arrugginito. E scandagliai tutto con la giustezza e la diligenza e il rigore dei migliori segugi. Dunque, contrariato, uscii dal convento con l’intenzione di non ritornarvi più, non prima di aver scavalcato il misero cadavere di un fraticello guardiano colpito a morte da un pugnale errante.

giovedì 12 luglio 2012

Il deretano

Un due tre, ed ecco che il mio deretano fu pronto ad esplodere. Vidi, per l’appunto, un’indecente bislacca figura pararmisi d’innanzi. Lo riconobbi in un istante, esso, tarchiato, sciancato, andicappato, dal suo occhio buono capii che colui, il rattrappito sbilenco, menomato, zoppo, era un credente. Lo vidi, come dissi, per l’appunto, puntando il dito verso il suo occhio, capii che il meschino aveva in se la convinzione di rivedere i suoi cari estinti dopo la sua inevitabile dipartita, il poveruomo si credeva fatto a somiglianza di dio, e fatto da dio stesso. Il disgraziato si era persuaso che la madonna e i santi fossero nel giusto, che gli apostoli fossero ragionevoli e che la bibbia non poteva provenire che dal divino, dall’altissimo (come credeva lui, il mentecatto). Mi voltai e annientai lo squilibrato con il mio più potente peto, lo scaraventai sulla luna e non lo vidi più. Il mio deretano è però sempre preparato a colpirlo ancora e ancora e ancora…

domenica 13 novembre 2011

La flatulenza

Non credendo ai suoi occhi il bravo Arculo lasciò la sua flatulenza in mezzo ai fedeli durante l’omelia. Era giunto alla messa con il solo scopo di lasciarvela, la voleva mollare e la mollò, l’aveva trattenuta per un anno intero. E per mille volte almeno aveva temuto di perderla per strada, oppure durante la pace del torpore, ma il furbo Arculo inventò il tappo anale e la bloccò, la bloccò per mesi e mesi. Infatti, egli, bevuta d’un sorso la sua quotidiana ampolla di liquore, rubò lo zaffo, lo infilò furtivo dentro i pantaloni e da quel giorno visse con il solo scopo di trattenerla, e la trattenne, eccome se lo fece. Un giorno gli parve di averla perduta poiché odorò un vento pestifero provenire dalle sue natiche durante la cena di natale, ma poi s’accorse di essersi seduto su di una sedia Gogolà (sgabello sudicio carico di feccia e di lordura, composto e realizzato da Monsignor Cardinal Bertone in occasione del duemillesimo compleanno di Giuda L’Escariota). I presenti all’omelia svennero dopo essere stati uccisi dal miasma provocato dal flato di Arculo, il prete scoppiò, il diacono ringiovanì, le suore si accoppiarono con l’acquasantiera, le finestre della chiesa mutarono i loro disegni da santiferi a merdiferi, gli affreschi della via crucis alle pareti presero vita e svelarono finalmente l’arcano della resurrezione di Gesù. Egli, difatti, dopo esser morto, resuscitò dopo tre giorni e decedé il quarto, rinvenne il ventunesimo e spirò il trentaquattresimo, rinacque il quarantesimo e schiattò il cinquantatreesimo, ritornò alla vita il settantesimo e tirò le cuoia definitivamente proprio durante l’omelia, non resistette all’infausta micidiale e nociva pernacchia pestilenziale e nauseabonda del valido e saggio Arculo.

martedì 21 giugno 2011

Il Gatto

Mai e giammai compresi il modo o la maniera di far defecare il gatto. Lo ricolmai di cibo, lo nutrii di uccelli e di ripieni, di polpette e latte in grande quantità, gli offrii le luculliane ghiottonerie dei re e le sfarzose squisitezze degli eccellenti chef ma egli, il gatto, non defecò.
Lo nascosi nel gabinetto di Marino Peto ed egli curiosò una straordinaria diarrea, opera che si edifica solamente nelle migliori occasioni - e solo dopo aver ingoiato incommensurabili quantità di pietanze – ma il gatto, nonostante gl’incitamenti, non volle evacuare.
Lo condussi dunque da Frate Merdaro, il quale lo meditò, l’indagò, l’analizzò e lo controllò. Lo legò, lo lubrificò e lo soppesò, gli lesse le sue misteriose quattro oscure e speciali avemarie clandestine ed in men che non si dica, il gatto vacillò, esitò, temporeggiò, ciondolò e scaricò chili e chili di letame purissimo ed escrementi incontaminati proprio tra le braccia del Frate, il quale, lieto e giubilante come un infante, non prima di averci salutati e benedetti con un inchino, si richiuse con le deiezioni nel suo personalissimo boudoir, uscendone solamente molte ore più tardi con quel gioioso e sereno viso che appartiene agli spiriti eletti e beati da imprecisabili e remotissime ere.

lunedì 6 dicembre 2010

Sant'eunuco

Non ebbi dubbio alcuno, non appena il pastore varcò la mia soglia lo rimproverai per essere quello che era e per gli abbigliamenti che portava e per i sermoni che enunciava e per l’intollerabile odiosa dannazione che emanava il suo flaccido corpo da misero eunuco qual era. Egli, l’eunuco, chiosò le sue ragioni e vagheggiò sul suo supposto dio chimerico, ripetendo, come fin da bambino seppe fare, le mendaci illusioni che gli furono istruite dai padri anziani. La certezza in cui viveva mi nauseò e l’almanaccai:
Gli narrai infatti ciò che accadde ad Augusto Colite, che pregò tutta la notte santa Rita e la mattina agevolò la scelta d’intossicare il suo gatto prediletto pur di non vederlo mangiare il topo che l’indispettiva. Oppure la storia di Tivo Motosega che preferì bastonare, vergare, flagellare, inchiodare ed arrostire su di un braciere il suo figliuolo amatissimo pur di assicurargli una beata beatitudine post mortem spettante ai martiri, come al beato San Lorenzo perseguitato da Valeriano. O invece descrissi la favola dell’inficiata Dora, la quale fu promessa in sposa ad un esecrabile cane idrofobo e collerico, impudico e lussurioso, il quale non poté sopravvivere all’ invereconda castità della sua consorte, qualità dettata dalla minuziosa e particolareggiata conoscenza della beata vergine Francesca Mézière.
Egli, l’eunuco prete pastore, con il suo ghigno ingannevole, approvò la scelta dei protagonisti delle mie narrazioni, ed espresse il desiderio di poter alleviare una sua fame inattesa, ed io per ringraziarlo saziai il suo improvviso appetito con delle magiche polpette che preparai all’istante, le quali, oltre che a sfamarlo, esaudirono il suo più sacro desiderio e ricoprirono il suo corpo di pustole dolorose che emettevano incessantemente un liquido sieroso, biancastro fetido e nauseabondo. Egli morì dopo aver celebrato incalcolabili messe in condizioni di disperazione pestilenziale così fu nominato nuovo patrono di Gubbio con il nome di Ubaldo secondo, identico al primo ma eunuco, dunque, per gli abitanti, decisamente migliore.
Me ne andai felice per la mia strada solamente dopo aver sterminato fino all’ultimo ogni autoctono eugubino.