sabato 24 ottobre 2009

L'indigeno

Vicissitudini inquiete indussero le mie membra ad intercedere lungo orrendi tragitti tenebrosi, imprecando per non sentirmi solo non mi arresi agli obsoleti pregiudizi del prete, i quali, presentendo l’avventura miscredente opterebbero verso un pacifico ritorno in patria, tentando una certa arcana riappacificazione con quel misterioso dio a cui crede ogni soggetto pensante che non sia nè troppo nè troppo poco intelligente.
L’interstizio tra me e il mio mondo si era fatto enorme e prima che potessi pensare all’impossiblità di tornare, scorsi dietro ad un sibillino cespuglio un indigeno che mi guardava con gli occhi da assassino ed impugnava un’ambuguo arnese bilame vibrandolo in aria. Ero pronto alla lotta e per non rimanere sorpreso urlai numerosi vituperi contro la chiesa e i suoi santi e nel fare ciò mi scaraventai contro l’indigeno con l’intenzione di farlo a pezzi. Ma una volta che l’ebbi raggiunto rimasi stupefatto, l’indigeno non era altri che il vescovo della mia piccola città, un'astruso miraggio aveva ingannato la mia mente e mi aveva quasi spinto ad un gesto inconsunto che mi avrebbe portato alla perdizione ed alla galera eterna! In un lampo d’istante elucubrai mille congetture, soppesai le discrepanze tra la visione e la realtà e concretai che il vescovo terrorizzato era decisamente più temibile dell’indigeno indiavolato, infatti egli - riavutosi dalla sorpresa - si alzò impetuoso e mi guardò, alzò il dito verso il cielo, ma prima che riuscì a proferire una sola sillaba del suo sermone ammazzadiavoli gli piantai un’ascia bilame in mezzo al cuore. Eliminai ogni prova del delitto ingoiando il metropolita fino all’ultimo, sgranocchiandogli perfino l’ultima falange dell’anulare. I capelli li regalai ad un amico quasi pelato, il quale mi ringraziò molto ed ancora oggi si fa chiamare Bertulli Valderrama.

domenica 9 agosto 2009

Il Cupolone

 
Cavalcando il mio levriero potente giunsi ai confini della mia tenuta e scrutando l’orizzonte vidi una cupola immensa al centro di una grande città, così mi decisi a visitarla. La chiesa era sconfinata, bellissima, l’amai in un istante e stabilii di comprarla, così chiamai il custode e mi presentai a lui come il suo futuro padrone; gli dissi che ho amato e che amo i cani, che non ho mai fatto del male ai maiali, che sono pronto a perdonare i peccati del gatto e del canguro, che nonostante il mio vizio di uccidere religiosi con efferata violenza conosco bene il cavallo e stimo molto la pecora. Gli rivelai che stavo per diventare il suo nuovo padrone e che avrebbe fatto meglio ad incominciare ad abbaiare e ad indicarmi il luogo ove si trovava il proprietario della chiesa, egli m’indicò senza meno le stanze dove un certo “papa” stava riposando e messosi a quattro zampe mi sorrise con la lingua fuori e scodinzolò. Avviatomi dove mi fu indicato incominciai a dare calci alla porta finché questa non si spalancò, una volta entrato ruttai più e più volte contro gli affreschi angelici del soffitto fino a farli scrostare e cadere, defecai e lanciai le mie feci alle finestre tentando di disegnarvi il mio ritratto, pisciai e vomitai in un pitale che giaceva ad un angolo della stanza (poi mi fu detto che si trattava di un’acquasantiera). Finito di fare ciò vedo in un angolino un vecchio, dai capelli bianchi e con il diavolo in corpo, indiavolato e arrabbiatissimo per questi miei scherzi esso mi raggiunse con un salto felino e mi prese per la gola, chiamò un certo dio e gli ordinò di punire questo mio comportamento, di trasformarmi in un ragno e nel farlo divenne viola in volto tanto che credei che egli stesso sarebbe divenuto un ragno in pochi istanti se non fosse per la sorpresa che escogitai e che lo fece tornare sereno. Infatti, con la naturalezza che contraddistingue i miei principeschi modi di fare e con estrema grazia, estrassi il bastone della mia vecchiaia dalle mutande, lo eressi e lo agitai con violenza colpendo il vecchio e distruggendogli il cranio. Lo aprii e notai una strana sostanza simile ad un budino che mi affrettai ad ingoiare, feci ciò con celerità e con grande avidità, dopodiché richiusi il cranio del vecchio e lo ringraziai per lo spuntino pomeridiano ma egli, maleducato qual era, non mi rispose, allora lo afferrai per un braccio e lo roteai facendolo schiantare contro un pilastro della chiesa per farlo rinvenire ma egli, diavolo qual era, non mosse ciglio. Dunque capii che si trattava certamente di morte apparente, così gli feci annusare un’allegra bottiglietta contenente un campione della mia preziosa urina ed egli infatti tornò in se. Lo ringraziai per l’allegro meriggio e conclusa la trattativa per la cessione della chiesa me ne andai felice per la mia strada.

giovedì 30 luglio 2009

L'ostia

Peto la Bomba analizzò per ore il noioso sermone del vescovo durante la messa di natale ma non riuscì in alcun modo ad ottenere qualche cosa di attinente alla sua ricerca, dunque scandagliò i reconditi intestini della sua latrina nauseabonda ma rimase interdetto non trovandovi in essa la Grande risoluzione che si aspettava.
Peto infatti visse per anni con l'unico obiettivo di trovare una risposta alla domanda: la merda, dove va?? Lo sapeva bene che una volta fuoriuscita dall'apertura aborale del suo corpo avrebbe galleggiato estasiata sull'acqua del water, ma poi, dopo aver tirato lo sciacquone, essa se ne sarebbe svanita dalla sua vista per non si sa quale meta, e ciò lo faceva vaneggiare, sognava che un giorno avrebbe trovato un posto beato con tutte le merde del mondo, quel dì sarebbe stato felice.
Entrando in chiesa ogni domenica vedeva tanta gente perbene, pronta a fare del bene, ma in una circostanza la sua sorpresa fu enorme quando riconobbe nell’ostia della comunione che si accingeva a compiere un suo vecchio escremento perduto giorni prima nel machiavellico intreccio dei tubi della sua toilette.
Dopo decenni di inchieste, sequestri, intercettazioni e segrete indagini si apprese che ogni escremento finiva sotto la cupola del vaticano, dove veniva rimescolato, soffocato, ripreso, unto, manipolato, incenerito, miscelato, masticato e ricombinato fino a divenire un’ostia, che veniva benedetta con l’urina del papa, pronta per la comunione dei fedeli.

martedì 14 luglio 2009

L'Iphone

Fra Merdaro era un brav’uomo, il saio che portava, simbolo di povertà, lo ostentava alla gente comune che in lui vedeva una persona attraente, un frate buono. Il giorno del suo settantaquattresimo genetliaco si recò in città con il suo solito passo ballonzolante e il suo gaio e cortese sorriso sorridente, visitò due malati terminali portandogli quel mendace conforto che solo un santo pio devoto può dare, pregò per ore il suo supposto e sofisticato Dio chimerico, si rifocillò con un gelato pestilenziale che aveva conservato per anni dentro uno stivale appestato, ed acquistò un Iphone, ne rimase folgorato. Infatti, dopo averselo infilato nella tenebrosa apertura aborale delle sue membra, il maliardo cellulare incantato, dotato dei prodigiosi poteri portentosi congegnati dalla Apple trovò da se una linea wi-fi non protetta nominata “ammazzafratemerdaro”, si collegò ad internet e visitò senza tregua il blog di Bebbe Grillo e un astuto sito e-commerce tailandese dedicato alla diffusione e alla vendita dei nuovissimi cellulari anali. Vibrò per ore fino a che non si liquefece portando alla detonazione del gps e all’implosione di Frate Merdaro fino a far rimanere di lui null’altro che il suo marmoreo cuoio cappelluto e i suoi costosissimi occhiali dorati tempestati di diamanti e di uno sterco fossilizzato risalente alla metà del quindicimila avanti cristo.

sabato 4 luglio 2009

Il burrone


Cavalcando il mio poderoso biciclo ignoravo quale sia il dolore lancinante provocato dalla caduta in un dirupo o dal rimanere fulminati, o dal perire mangiati dal leone, eppure la vita mi appariva lieta anche senza sapere queste cose e sorridevo al pensiero del futuro. Così con il sorriso tra le labbra preparai uno scherzo. Vidi due persone camminare lungo la strada con dei libri in mano, mi nascosi velocemente dietro un grosso macigno, quando si furono avvicinate le chiamai fingendomi in pericolo, esse accorsero e mentre aggiravano il macigno con uno sgambetto le feci precipitare in un grosso anfratto abissale. Rotolarono per mille metri sulle rocce acuminate e sugli alberi scabrosi e finirono la loro corsa in un fiume micidiale, infatti avevo collocato in esso i cavi dell'alta tensione facendo in modo che ogni cosa che si fosse bagnata nel fiume si sarebbe folgorata, e così fu, i due passanti saettarono in orbita colpiti da mille convulsioni e caddero proprio nella tana di un leone che li sbranò con grande appetito e con mio grande piacere. Di loro rimasero solamente i volantini di Torre di guardia e un'inutile libraccio divulgativo di terz’ordine su come ebbe origine la vita.

sabato 27 giugno 2009

L'osteria



Parecchi anni or sono a San Giovanni Rodondo ad un certo Marino Peto venne in mente di aprire un'osteria. Comperò un localino non troppo distante dal centro città, con un grande parcheggio davanti e delle ampie vetrate chiare che lo rendevano luminoso di giorno e splendente di notte. Fece portare un pesante bancone ricurvo e lo fece sistemare proprio in mezzo al locale, cosicchè tutta la vita sarebbe prillata attorno al centro, e le sedie arcuate e i tavolini ovali realizzavano le idee circolari del proprietario e completavano i propositi di chi aveva battezzato la città. All'inaugurazione venne tanta gente perbene, non aristocratica, ma piccolo borghese, non ci fu troppo chiasso e alla chiusura tutti si lusingarono di tornarvi il più presto. Ogni sera che passava veniva sempre nuova gente, e trascorse solo un mese che l'osteria fu sempre al completo. Il carattere tranquillo del proprietario metteva la gente a suo agio e tutto splendeva magnificamente fino a che un giorno irruppe un frate. Padre Pio andò al bancone ed ordinò un crodino, ma appena ne ebbe bevuto un sorso Marino Peto notò che le stigmate del monaco avevano impregnato il bicchiere di sangue, se ne sentì tremendamente offeso, l'odiò e bestemmiò più e più volte, ma il frate rispose che quelle ferite erano quelle di cristo e che comunque non se ne sarebbe andato prima di aver bevuto il suo crodino, e così facendo si appoggiò sul bancone che rimase macchiato di sangue. Marino Peto divenne rosso in viso, sbiancò e divenne blu, ingiallì e si fece nero di rabbia, prese in mano una sedia arcuata e la distrusse sulla schiena di Padre Pio, il quale, pure lui imbestialito salì in piedi su un tavolino ricurvo e defecò senza alcun riguardo ai clienti che guardarono sbigottiti la scena. Così Marino rincorse il frate con in mano una mannaia per tutto il locale, cercando di colpirlo, e ad ogni colpo non riuscito feriva i clienti che stranamente rimanevano seduti senza muover ciglio, incominciò a lanciargli bottiglie, ma l'agilità del frate era notevole, così le bottiglie fracassavano i crani della gente. Padre Pio si tolse la sottana fratesca e urinò per terra, Marino, con in mano una spada, tentò di evirarlo ma scivolò e tagliò la testa ad un frequentatore affezionato che tentava di ordinare una cedrata. Il frate, correndo, lanciava conati di vomito, Marino, correndo, lanciava pugnali che trafissero a morte tutti i clienti rimasti in vita. Si andò avanti così per tutta la notte e per i giorni successivi ed oggi ogni persona che passa per San Giovanni Rotondo non può fare a meno di bere qualcosa all'osteria rotondeggiante di Marino Peto, con le sue sedie arcuate, i suoi tavolini ovali e il mezzo busto impagliato di Padre Pio che, all'entrata, sorride affabile invitando tutti ad entrare.

giovedì 25 giugno 2009

L'accattone

Galoppando per la via Emilia m’imbattei in un maledetto mendicante. Vestito come un pezzente, maleodorante, balbuziente e credente. Esso mi disse di essere stato di famiglia perbene, quasi ricco, e dopo aver ereditato ogni cosa la regalò ai poveri che incrociavano il suo cammino e così, in poco tempo, gli rimasero solamente degli stracci addosso e dei sandali nauseabondi. L’amore per il prossimo era stato il suo unico proposito e ora chiedeva unicamente qualche cosa da mangiare per continuare a vivere, era certo, mi confidò, che tutto il bene che aveva fatto gli sarebbe ritornato, e Gesù Cristo non l’avrebbe mai abbandonato. Rimasi perplesso un istante, mi guardai attorno e lo colpii con un potente fendente alla mandibola, il mendicante cadde a terra in lacrime e rialzandosi pregò il suo Dio che il dolore svanisca in fretta, colsi l’occasione per screditare le sue fantasie e lo trafissi con uno stecco proprio in mezzo al corpo, avendo cura, è chiaro, di non danneggiare organi vitali. Lo percossi a lungo, lo bastonai per ore, lo ferii, lo ustionai, gli strappai via i denti e facendo ciò lo ricoprii di diaboliche bestemmie, che pareva facessero soffrire il mendicante più delle percosse. Appena ebbi terminato la mia predica, l’accattone, con un filo di voce, mi chiese il motivo di tanta gratuita violenza, in risposta me ne andai felice per la mia strada sfigurandolo con un calcio ben assestato diritto negli occhi.

martedì 23 giugno 2009

La tana

Contemplando il quadro del defunto pontefice in fondo al magazzino di Dido Porcolò notai l'improbabile dimora di un gatto sodomita. Esso infatti decise un giorno di recidere con astuzia e arguzia la tela del quadro, grattò a più non posso il muro fino ad incunearvi il suo confortevole alloggio. Il quadro del papa gli faceva così da porta, e la sua tana divenne accogliente. Il gatto sodomita era un gatto particolarmente intelligente, così, per difendersi dall'autunno imminente, stabilì di intonacare le pareti del suo rifugio. Il felino, furbo come un diavolo, evidentemente conosceva i segreti della vita, e scelse di intonacare con le feci, ma più l'inverno si avvicinava, più il freddo pungente faceva tremare il gatto che a sua volta nuovamente defecava e intonacava la sua casa. L'intonacò per mesi e mesi fino a che le feci uccisero il gatto soffocandolo. Finito l'inverno le temperature andarono alzandosi e giunta l'estate le pareti della casa si sciolsero. Dido Porcolò passeggiava per il suo magazzino in una mattinata di agosto, alzò gli occhi alla parete e credette ad un miracolo quando vide l'effigie di Carol Voitila che aveva cagato lungo il muro.

venerdì 19 giugno 2009

L'agguato



Arrugginita che fu la mia corazza impiegai settimane ad incontrare un furbo che me la lavò e me la sistemò, ma una volta che fu lavata e sistemata fui pronto all’azione. Attesi ore ed ore all’angolo del teatro, dove la vista della piazza allarga il cuore a chi striscia intorno ai vicoli della città vecchia. Ed io, teso come la corda di un impiccato e piegato sulle gambe indugiavo nel più assoluto silenzio e nella più accorta concentrazione. Ad un tratto la vidi, eccola, la mia preda, si avvicinava, l’attendevo e stavo per incontrarla, ero pronto all’azione e la poveretta forse non s’immaginava che gli sarebbe accaduto, e continuava ad avvicinarsi a me. Quando mi fu a due passi alzai il capo e scattai con più potenza possibile verso di lei che appena mi vide rimase immobile, congelata nel panico, abbassai la testa e l'incornai diretta nello stomaco disarcionandola dalle sue scarpe nere e sfracellandola proprio in mezzo alla piazza. Me ne andai soddisfatto per la mia strada con indosso il suo copricapo suoresco.

giovedì 18 giugno 2009

Il Tatuaggio

Decisi di comperarmi un gatto, andai dal gattivendolo e scartabellando gli animali ammassati in un immenso bidone imprecai contro il suo Dio, qualunque esso sia. Il brav’uomo, vedendomi curiosamente instabile e nervoso, mi sorrise e m’invitò nella stanza attigua a conversare su importanti questioni filosofiche.
Impiegai 43 ore ad espletare noiose spiegazioni affannose su come la credenza nella bibbia annebbia e l’inutilità di un Dio com’è in essa descritto non è utile a nessuno, tantodimenoche ad uno come me che vuol comperare un gatto.
Il gattivendolo sorrise di nuovo e disse che anche i gatti sono protetti da Dio e che Dio è buono e bravo e se facciamo del male ai gatti Dio si arrabbia molto perché se si è cattivi allora Dio s’incazza e poi sono cazzi di chi ha fatto incazzare Dio.
Gli sorrisi a mia volta e tornai a casa solo dopo essermi tatuato un gatto crocefisso sul deretano.