domenica 13 novembre 2011

La flatulenza

Non credendo ai suoi occhi il bravo Arculo lasciò la sua flatulenza in mezzo ai fedeli durante l’omelia. Era giunto alla messa con il solo scopo di lasciarvela, la voleva mollare e la mollò, l’aveva trattenuta per un anno intero. E per mille volte almeno aveva temuto di perderla per strada, oppure durante la pace del torpore, ma il furbo Arculo inventò il tappo anale e la bloccò, la bloccò per mesi e mesi. Infatti, egli, bevuta d’un sorso la sua quotidiana ampolla di liquore, rubò lo zaffo, lo infilò furtivo dentro i pantaloni e da quel giorno visse con il solo scopo di trattenerla, e la trattenne, eccome se lo fece. Un giorno gli parve di averla perduta poiché odorò un vento pestifero provenire dalle sue natiche durante la cena di natale, ma poi s’accorse di essersi seduto su di una sedia Gogolà (sgabello sudicio carico di feccia e di lordura, composto e realizzato da Monsignor Cardinal Bertone in occasione del duemillesimo compleanno di Giuda L’Escariota). I presenti all’omelia svennero dopo essere stati uccisi dal miasma provocato dal flato di Arculo, il prete scoppiò, il diacono ringiovanì, le suore si accoppiarono con l’acquasantiera, le finestre della chiesa mutarono i loro disegni da santiferi a merdiferi, gli affreschi della via crucis alle pareti presero vita e svelarono finalmente l’arcano della resurrezione di Gesù. Egli, difatti, dopo esser morto, resuscitò dopo tre giorni e decedé il quarto, rinvenne il ventunesimo e spirò il trentaquattresimo, rinacque il quarantesimo e schiattò il cinquantatreesimo, ritornò alla vita il settantesimo e tirò le cuoia definitivamente proprio durante l’omelia, non resistette all’infausta micidiale e nociva pernacchia pestilenziale e nauseabonda del valido e saggio Arculo.

martedì 21 giugno 2011

Il Gatto

Mai e giammai compresi il modo o la maniera di far defecare il gatto. Lo ricolmai di cibo, lo nutrii di uccelli e di ripieni, di polpette e latte in grande quantità, gli offrii le luculliane ghiottonerie dei re e le sfarzose squisitezze degli eccellenti chef ma egli, il gatto, non defecò.
Lo nascosi nel gabinetto di Marino Peto ed egli curiosò una straordinaria diarrea, opera che si edifica solamente nelle migliori occasioni - e solo dopo aver ingoiato incommensurabili quantità di pietanze – ma il gatto, nonostante gl’incitamenti, non volle evacuare.
Lo condussi dunque da Frate Merdaro, il quale lo meditò, l’indagò, l’analizzò e lo controllò. Lo legò, lo lubrificò e lo soppesò, gli lesse le sue misteriose quattro oscure e speciali avemarie clandestine ed in men che non si dica, il gatto vacillò, esitò, temporeggiò, ciondolò e scaricò chili e chili di letame purissimo ed escrementi incontaminati proprio tra le braccia del Frate, il quale, lieto e giubilante come un infante, non prima di averci salutati e benedetti con un inchino, si richiuse con le deiezioni nel suo personalissimo boudoir, uscendone solamente molte ore più tardi con quel gioioso e sereno viso che appartiene agli spiriti eletti e beati da imprecisabili e remotissime ere.